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- 13.09.2011
La manovra aiuta solo le grandi imprese e la rendita
Alla fine, la manovra imposta dal governo nei giorni scorsi sembra essere stata studiata per avvantaggiare la grande impresa, a discapito del dinamismo del sistema economico. Nelle condizioni attuali, nessuna delle misure proposte è stata studiata per sostenere le piccole e medie imprese, o per facilitare il loro aumento dimensionale. La manovra, tra tasse e controlli, favorisce solo “chi è già grande”, ed evita la formazione di fastidiosa concorrenza.
Sospetti ne avevamo da giorni, osservando quanto deciso in merito all’articolo 18. La riforma consente alle grandi imprese di ridurre il personale negoziando con i sindacati di riferimento. Interessa poco alle imprese con meno di quindici dipendenti, che volessero crescere. Non riscatta dal limbo contrattuale i milioni di precari che gravitano per la piccola e media impresa, e presto ne ingrosserà le fila.
L’aumento dell’IVA, poi, tocca in maniera solo marginale chi beneficia di situazioni di quasi monopolio in particolari settori: anche se il costo di un bene aumenta dell’1%, i consumi si ridurrebbero solo di poco. Diverso è il discorso per le piccole imprese. È una questione squisitamente tecnica, ma che vale la pena approfondire. Le piccole imprese operano spesso da fornitrici per le “grandi”, o per la pubblica amministrazione. In questo periodo di crisi, i pagamenti sono in ritardo rispetto alla media storica.
Ciononostante, ogni tre mesi le imprese sono obbligate al versamento dell’IVA incassata sulle vendite, anche se non hanno ancora ricevuto pagamenti. Nel frattempo, l’impresa “cliente” può tranquillamente scaricare il costo del suo acquisto, anche se non ha pagato nulla (si veda a tal proposito un passaggio interessante di “Luigini contro Contadini” di Gabrio Casati, a pagina 102). Per questo, un aumento dell’1% dell’IVA per un singolo individuo potrebbe significare poco; ma per una piccola impresa impone di reperire ciclicamente migliaia di euro per finanziare il cash-flow.
Non finisce qui: la manovra propone tra i punti salienti la “lotta all’evasione”, e ben poco si concentra sull’elusione (intesa come sistema legale – o quasi – per evitare le tasse, tramite la creazione di imprese fiduciarie all’estero o simili). Nulla è stato fatto in merito ai rapporti con la Svizzera. Si è preferito un sistema che avrebbe fatto felice la Stasi: pubblicazione dei redditi on-line (seppure in una bislacca forma anonima, tanto per divertirsi con il “toto-ricchi”), galera per particolari grandi evasori, e arruolamento dei comuni nell’inquisizione fiscale.
Sia chiaro che, soprattutto in questo periodo storico, siamo d’accordo sul fatto che le tasse debbano essere pagate: in alcune regioni l’evasione è parte costituente del sistema economico.
Abbiamo però dubbi sul fatto che imporre “davvero” un prelievo fiscale al 55,5% possa aiutare la rinascita economica. Si tenderà a mungere la piccola e media impresa, mentre quella “grande”, che può contare su complesse strutture fiscali internazionali, sarà impattata solo marginalmente dai provvedimenti.
Il tutto è condito di populismo. Come spiegare altrimenti il famoso “contributo di solidarietà” che si impone ai redditi superiori ai 300.000 euro? Il gettito atteso è ri-di-co-lo: 53,8 milioni di euro nel 2012 e 144 nel 2013. Ai fatti, vengono bastonati anche i privati cittadini. Sui provvedimenti in merito alla riduzione dei costi della politica, l’autore si ripromette a breve di pubblicare un personalissimo saggio sul suo blog.
Nell’occasione verranno anche affrontate le complessità matematiche pensate per calcolare le aliquote fiscali dei parlamentari con doppio lavoro o doppio incarico, espresse con formule di calcolo degne di una supercazzola.
Sembra che questa manovra, più che un operazione per “salvare l’Italia”, sia un tentativo disperato di riconquistare il favore della grande impresa italiana, dopo “felici” operazioni come Alitalia e Parmalat-Lactalis. Ai grandi gruppi è stata proposta una scelta: riformare il sistema e orientarlo alla crescita, ma intaccando le posizioni di rendita; o accettare una crisi più o meno prolungata, e mantenere le posizioni di rendita inalterate.
Alla fine, però, il mercato ha reagito male, tanto da insidiare anche le posizioni di rendita. Un default provocherebbe una crisi di cassa anche tra i grandi gruppi.
Lo spread Btp-Bund sta per colpire il gong dei 400 punti, che suonerà da campana a morto per la finanza italiana. Con l’aumento del rischio-paese, incrementeranno anche i costi di accesso al credito per tutte le imprese, anche quelle grandi. Se scelleratamente si tornasse alla lira, le possibilità d’internazionalizzazione del sistema economico saranno azzerate – e ne beneficerebbe solo una quota marginale delle piccole.
Insomma, le seconde nozze tra governo e grande impresa non si realizzeranno. I cammelli che il governo ha offerto sono stanchi e malati. Serve una rinascita, che provenga da un’alleanza tra ceto veramente produttivo, ed estero. La piccola impresa è più vicina a Berlino e Francoforte, che a Roma.